ATTENZIONE: Il racconto che segue presenta situazioni e immagini adatte ad un lettore adulto

LE PAROLE ELETTRICHE (2005)


Aveva cominciato a piovere. Una pioggia sottile, fastidiosa, e l’aria, sì, l’aria era umida e calda.
Mi strinsi nella giacca a vento e sbuffai. Quella strana agitazione era tornata, quella strana agitazione fottuta che mi aveva fatto uscire dalla stanza dell’albergo di via Cesarini come se avessi visto un fantasma seduto sulla coppa del cesso.
Come... ma io l’avevo visto, quel fantasma e non era stata una allucinazione. Ero io, che mi guardavo con le braghe calate attraverso lo specchio macchiato di quel bagno dalle piastrelle gialle. Ed ero già morto.
Posai la borsa e la sistemai fra le gambe. Il vento si era alzato e volava di tutto, in quella fermata d’autobus. Foglie secche e carte e polvere come aghi di ferro. Così, strizzando gli occhi gettai un’occhiata in fondo alla strada.
Le lampade appese sulla strada lucida sembravano palloni opachi di luce gialla, troppo sporca per raggiungere l’asfalto e servire a qualcosa. Però, in fondo alla curva, riuscii a scorgere qualcosa che si muoveva. Sì, era troppo lento per essere un camion e poi nessun camionista avrebbe dipinto il proprio mezzo di quel colore.
Era un bus.
Uno di quelli che a quell’ora di notte fanno di corsa da un capo all’altro della città, allungata sulla costa come una balena spiaggiata. Decisi che avrei dovuto fermarlo, se non volevo passare il resto della notte a quella fermata a richiesta, così mi accucciai, aprii la borsa e presi ciò che dovevo prendere, me lo cacciai sotto la giacca e aspettai, col braccio alzato come se fosse una cosa del tutto normale prendere un autobus alle tre del mattino, se quella era l’ora giusta, naturalmente.
E quello si fermò con uno stridere di freni che mi fece alzare la pelle d’oca. N1, si chiamava. O per lo meno era ciò che c’era scritto lì sopra, oltre l’ampio parabrezza solcato dai due tergicristalli consumati.
Lo guidava una ragazza, dall’aria scocciata e dai capelli raccolti sulla nuca. Salii e mi sedetti più o meno a metà.
N1 era vuoto.
Insomma, per modo di dire. Era praticamente vuoto perchè era di quelli lunghi e a bordo eravamo in tre, senza contare la ragazza dall’aria scocciata.
I vetri, rigati da milioni di gocce sottili e sporche, erano neri di buio e lucenti di fari e lampade e di insegne lasciate accese.
Ma riflettevano anche il mondo viaggiante, freddamente illuminato dai quattro neon scarichi attaccati al soffitto di fòrmica del bus.
Di nuovo, il fantasma mi guardò da fuori. Quel bastardo chissà come correva come l’N1. Sembrava seduto fuori dal finestrino, tanto sembrava calmo e tranquillo e mi guardava, con quella faccia da pazzo. Sei morto, diceva. E lo sai che sei morto. Lo so, gli dicevo. Smettila, bastardo fottuto. Vattene. E quello, ogni volta che guardavo lontano, oltre la testa del tipo seduto davanti a me, smetteva di parlare. Spariva. Poi, bastava che mi voltassi e quello tornava. Bastardo. Era sempre lì, e rideva. E diceva quelle cose.
Le lacrime mi solcavano le guance.
Poi un suono, diverso dal rumore del motore. Più alto. Un suono bianco come una striscia di gesso sulla lavagna, dritta e interrotta. E ripetuta. Mio Dio. Stava rigando tutta la lavagna... E il tipo che prende dalla tasca una scatoletta argentata, con una lucetta gialla e se la porta all’orecchio.
Un telefono.
Lo guardai e non vidi più il fantasma, ma solo la nuca del tipo di fronte.
Cazzo vuoi, disse. Ma non a me. Parlava al telefono. Un suono gracchiante, come di parole elettriche filtrava dal suo orecchio e mi raggiunse sul mio sedile di plastica blu. Mi domandai se quelle parole elettriche potessero fare male, poi mi ricordai dell’aggeggio che avevo sotto la giacca e lo cercai. Lo raggiunsi e lo tastai. Era caldo, come l’aria e la pioggia e rimasi lì, con la mano destra dentro la giacca, come una bodyguard.
Vai a farti fottere, Luisa, diceva quello. Le parole elettriche sembrava piangessero.
Mi hai rotto i coglioni. E poi rise. Sì, lo fece. Mentre le parole elettriche piangevano lui rideva. Si appoggiò al vetro e la luce del telefono si doppiava oltre il finestrino. Sicuro che c’era anche il fantasma, lì fuori.
Aveva i capelli tagliati corti. Il tipo, dico. E dietro facevano uno strano giro, come se qualcuno gli avesse rimescolato la nuca con un cucchiaio sporco.
Sei morto, diceva il fantasma.
Fottiti, diceva quello.
Ma sarebbe stato tutto tranquillo se non fosse stato per quelle parole elettriche che piangevano. Mi guardai le mani ed erano bianche. Una aperta e l’altra chiusa. E quella chiusa stringeva una pistola. Era quello, l’aggeggio caldo.
Mi voltai.
C’era un un tipo che dormiva, nei sedili in fondo. Aveva una borsa di plastica blu piena zeppa di roba.
Tornai alle mie mani, e una era aggrappata allo schienale del sedile davanti, come se volesse trattenerlo.
Fai schifo, diceva quello. L’aggeggio si alzò e gli si appoggiò direttamente in mezzo allo strano giro dei suoi capelli. C’era la mia mano attaccata.
Che cazzo... Disse quello a quel punto, posando il telefono.
E poi i vetri diventarono rossi, e di roba grigia e di fumo. Un suono secco, scuro e frastagliato, continuava a urlarmi nelle orecchie. Chissà cosa gli era successo? Forse le parole elettriche fanno male davvero...
Posai le mani sulle ginocchia, mentre il bus si fermava di colpo. L’aggeggio scivolò a terra, sulla borsa. La ragazza scocciata si sporse dal vetro scuro del suo posto di guida e cominciò ad urlare, mettendosi le mani nei capelli. La guardai e anch’io feci la stessa cosa.
Forse voleva giocare.
Mah, gioco stupido. Poi si mise a prendere a calci la porta, continuando a gridare. Piangeva, come le parole elettriche. Mi voltai e il tipo che dormiva stava tentando di aprire un finestrino.
Ma che cazzo... mormorai. Fanno male, le parole elettriche. Lo ripetei un’altra volta, ma quella continuava a gridare e a piangere. Fanno male, urlai, ma quella gridò ancora più forte. Poi ancora due lampi, rossi, sul parabrezza rigato di pioggia che andò in pezzi. E smise. Di colpo. E scivolò per terra. Adesso aveva i capelli sciolti. Forse li aveva sciolti per me.
Le sorrisi, ma lei rimase così, con gli occhi sbarrati. Feci appena in tempo a scorgere il tipo che dormiva che si calava dal finestrino, poi rividi il fantasma, al mio fianco, sul sedile di fuori, che sorrideva.
Sei morto. Diceva.
Sì. Sono morto.

FINE

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